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Morte, processo del lutto e trasformazione



Gustav Klimt, Death and Life (1915)





“Allora Almitra parlò dicendo: Ora vorremmo chiederti della Morte. E lui disse: Voi vorreste conoscere il segreto della morte. ma come potrete scoprirlo se non cercandolo nel cuore della vita? Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al giorno, non può svelare il mistero della luce. Se davvero volete conoscere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita. poiché la vita e la morte sono una cosa sola, come una sola cosa sono il fiume e il mare”.
Khalil Gibran - Il Profeta


In merito alla morte, scrive Freud (1929): "eros e thanatos scandiscono la dimensione psichica e biologica di ogni essere vivente. Thanatos costituisce la pulsione di morte, insita in ogni essere umano, che tende alla riduzione di tutte le tensioni fino a ricondurre l'essere vivente allo stato inorganico, agendo dapprima verso l'interno come autodistruzione e poi verso l'esterno come pulsione di aggressione e distruzione". Entrambe le pulsioni agirebbero in modo conservativo, poiché mirerebbero al ripristino di uno stato, la morte, turbato dall'apparire della vita. La vita stessa sarebbe una lotta e un compromesso fra queste due tendenze, la continuazione della vita e al tempo stesso l'aspirazione al ripristino dello stato precedente di morte.

Eugenio Borgna (2011) distingue vita e morte e vivere e morire: "Il morire è il luogo di incontro fra l’essere e il non-essere; è il passaggio dalla vita alla morte. Se la rimozione della morte sembra essere radicata nella coscienza moderna, la rimozione del morire non è così facile. La vita e la morte si escludono reciprocamente; mentre il vivere e il morire sconfinano l’uno nell'altro. Morire è ancora vivere; anche se è un vivere divorato dall'angoscia e dalla solitudine. La morte è la sconosciuta della quale si può solo dire che è la negazione della vita". Continua: "Il senso cifrato della morte, la interrogazione radicale che essa ogni volta ripropone sul senso della vita e sul senso del destino, sembrano divenute estranee alla coscienza, almeno a quella del mondo occidentale, di oggi: divorata dalla tecnica e dalla fuga dinanzi ad ogni problematica che non abbia possibili e immediate soluzioni tecniche. Ma l’angoscia, quando rinasce in noi, ci confronta con le domande ultime e con la morte. Cadono le rimozioni, e le ombre della morte riempiono gli orizzonti della vita".

Restando sul tema dell’angoscia, scrive Bauman (1999) che la morte è “la «madre di tutte le angosce», la minaccia che quotidianamente genera tutte le altre e non permette loro di allontanarsi. È l'epilogo brutale e improvviso, l'unico oltre il quale non c'è inizio. La morte è l'archetipo di questa fine, l'unica che si mostra solo in un'unica forma. La condizione umana, allo stesso tempo vincola il tempo ed è vincolata dal tempo; la mente che padroneggia il tempo ha tutte le ragioni di sperimentare sé stessa come eterna, ma dimora in un involucro chiaramente e irrimediabilmente transitorio. La caducità del corpo frena e annichilisce il senso di immortalità della mente. Essere «umani» significa allo stesso tempo conoscere questa condizione, essere incapaci di influire su di essa in qualche modo, ed essere consapevoli di questa incapacità. Questa è la ragione per cui “essere umani significa anche provare paura”".

Scrive Galimberti (1992) che l'uomo ha reso la morte un fatto culturale perché "come sostiene L.V. Thomas ("Antropologia della morte", 1975), «nell'atteggiamento di fronte alla morte si può scorgere quell'aspetto per cui l'uomo si sottrae parzialmente alla natura e diventa animale acculturato. Si può infatti constatare che fra tutti gli esseri viventi, l'uomo rappresenta la sola specie animale cui la morte è onnipresente durante tutta la sua vita (sia pure solo a livello di fantasmi); la sola specie animale che accompagna la morte con un rituale funebre complesso e ricco di simboli; la sola specie animale che ha potuto credere, e spesso ancora crede alla sopravvivenza e alla rinascita dei defunti; in breve la sola specie per la quale la morte biologica, fatto di natura, si trova continuamente superata dalla morte come fatto di cultura»".

Bouguereau "Il primo lutto" (1888)
In accordo a quanto scritto da Borgna relativamente all'estromissione dalla coscienza delle morte, cito Norman Oliver Brown (1964) quando afferma: "«Ciò che distingue l’uomo dagli altri animali» scrive Unamuno «è che in un modo o nell'altro egli cura i suoi morti. E da cosa li protegge in modo tanto futile? La dannata coscienza indietreggia di fronte al proprio annientamento... Il gorilla, lo scimpanzé, l’orango e i suoi congeneri debbono considerare l’uomo come un povero animale malato, che ammassa persino i suoi morti». Non è tanto la consapevolezza della morte che distingue gli uomini dagli animali, quanto la loro fuga di fronte a essa. E Unamuno fa notare che dai tempi dei primi cavernicoli, che mantenevano in vita i loro morti tingendone di rosso le ossa e seppellendole accanto al focolare domestico, giù giù fino al rituale dei funerali hollywoodiani, la fuga dalla morte è stata il centro di ogni religione. È la fuga dalla morte che lascia all'umanità il problema di cosa fare con l’innata morte biologica, di cosa fare con la propria morte rimossa. Gli animali lasciano che la morte sia una parte della loro vita e si servono dell’istinto di morte per morire: l’uomo invece aggressivamente costruisce culture immortali e crea la storia per combattere la morte".

Elisabeth Kubler-Ross (1976), ancora, contribuisce scrivendo quanto la morte sia considerata, ai giorni nostri, come un tabù, un concetto da non affrontare, da evitare. Ella sostiene che più avanziamo nella scienza, più temiamo la morte. "Oggi morire è più solitario, meccanico, disumanizzato. Scienza e tecnologia hanno portato ad una maggiore paura della distruzione e quindi della morte. Se la capacità di difendersi fisicamente diminuisce, aumenta quella di difendersi psicologicamente; si rifiuta la realtà della propria morte".

Anche Carotenuto (1991), in linea col pensiero della Kubler-Ross, scrive: “Che si tratti del lutto per la morte di altri, o del pensiero della propria morte anticipato dal cordoglio per la perdita di un essere amato; che si tratti, ancora, dell’esperienza della malattia o del dolore, oppure della debolezza o della percezione che sente l’inesorabile assottigliarsi delle forze vitali; che si tratti, infine, della solitudine o della pena per un fallimento reale o immaginato, il discorso sulla morte e sul morire si fa rarefatto, refrattario, come ripiegato sul silenzio.”
Più avanti: "L’orizzonte di limitatezza entro il quale siamo iscritti come uomini si impone come ombra della morte su tutto ciò che facciamo e desideriamo, e mai come nella nostra epoca l’uomo ha tentato di esorcizzare la paura, e anche solo l’idea della morte, attraverso la corsa sfrenata all’iperproduzione o il mito del progresso, attraverso soprattutto un impiego vertiginoso del tempo, nell’illusione che nel suo gorgo potessero precipitare le sue immagini funeste e i suoi oscuri avvertimenti. Il tentativo di tradire la morte, di rimuoverne la presenza attraverso i riti della modernità, più che destituirla di potere, ne ha ingigantito temibilmente l’ombra, così che, se da un verso proliferano gli elisir di lunga vita e le tecniche di perfezionamento estetico che sembrano fermare il tempo, dall'altro nessuno sfugge al rischio atomico di una distruzione totale e folgorante.
Il fatto è che appare del tutto impossibile tradire la morte, senza tradirsi, non solo perché essa scandisce il nostro tempo psichico con le sue continue presenze, filtrate attraverso la perdita dei nostri cari, la morte dei nostri amori, la malattia, ma perché la morte significa la possibilità che la nostra esistenza non si realizzi, annuncia la minaccia del nulla e dell’assenza di significato del nostro essere nel mondo. La vittoria della morte s’insinua negli interstizi del nostro presente, quando non riusciamo a esserne padroni e consapevoli, quando è lei a fare da guida ai nostri passi".
Ed ancora: "La morte dunque nega l’esistenza semplicemente imponendole un limite. Sul piano della vita quotidiana questa negazione significa che ogni progetto può essere invalidato e può essere smentita ogni speranza; è come se il senso di ogni nostro agire venisse continuamente messo in discussione e il valore che gli attribuiamo ridimensionato drasticamente alla luce della sua precarietà. Anche se fin dall'infanzia ci è stato instillato il concetto della caducità dei beni terreni, ciascuno di noi coltiva un qualche progetto "a lunga gittata", dimenticando o fingendo di dimenticare quel "limite"; ed è bene che sia così, perché solo se ci concediamo una progettualità di grande respiro la nostra coscienza può a sua volta espandersi liberamente.  E risiede in ciò, forse, risiede in questo libero espandersi della coscienza il destino più autentico di un uomo. Ma sebbene questa ampiezza ci rassicuri facendoci balenare orizzonti molto più vasti del nostro angusto panorama quotidiano, non possiamo non avvertire di quando in quando una minaccia sospesa su di noi, o meglio sotto di noi, come un pregiudizio, un abisso sul quale non gettiamo lo sguardo per evitare le vertigini. Sappiamo del resto che, prima o poi, quel "senza fondo" ci inghiottirà. Eppure saremo costretti a guardarlo, quell’abisso, non soltanto ogni volta che ci imbatteremo nella morte di una persona che ci è cara, ma, anche, ogni volta che di una persona amata sentiremo l’irrimediabile lontananza, la distanza siderale che ci separa da ogni altra creatura umana e che neanche l’amore riesce a colmare.
Ci sfiora la morte ogni giorno nei mille abbandoni che subiamo o compiamo, e s’insinua la morte, silente ma non per questo meno avvertita, nei nostri momenti felici per guastarci la festa. Se anche riuscissimo a tenerne costantemente lontano il fantasma, saremo comunque costretti ad accogliere il pensiero tremendo della morte il giorno in cui essa ci toglierà una persona che amiamo. La nostra unica "esperienza" della morte, infatti, è una morte di cui siamo spettatori, la morte di un’altra creatura umana".
E' possibile tradire la morte? Carotenuto conclude che è possibile "a meno che al posto della morte come accidente concreto e conclusivo non prendiamo in considerazione l’idea della morte, la consapevolezza di questo limite ineludibile della nostra vita. In questo caso, possiamo anche essere noi i traditori, allora diventa chiaro che la morte non può essere che la via d’accesso a un’esperienza di trasformazione, cioè di rinascita."

«Proverai la gioia delle piccole cose solo se avrai accettato la morte. Se invece ti guardi intorno avidamente in cerca di tutto ciò che potresti ancora vivere, allora nulla sarà mai grande abbastanza per il tuo piacere, le piccole cose che ti circondano non ti daranno più gioia. Contemplo perciò la morte perché essa mi insegna a vivere.»
(C.G.Jung – Libro Rosso)

La trasformazione è ciò che avviene nell'elaborazione di un lutto.
Per Freud (1917), il lutto è “invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via. Esso è psichicamente caratterizzato da:
- un profondo e doloroso scoramento,
- da un venir meno dell’interesse per il mondo esterno,
- dalla perdita della capacità di amare,
- dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività
Il lutto profondo, ossia la reazione alla perdita di una persona amata, implica lo stesso doloroso stato d’animo, la perdita d’interesse per il mondo esterno – fintantoché esso non richiama alla memoria colui che non c’è più –, la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d’amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l’avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria. questa inibizione e limitazione dell’Io esprime una dedizione esclusiva al lutto che non lascia spazio ad altri propositi e interessi. L’inibizione e la mancanza d’interesse si spiegano compiutamente con il lavoro del lutto da cui l’Io è assorbito. Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato".
"In cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? l’esame di realtà ha dimostrato che l’oggetto amato non c’è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un’avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto.
 La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d’investimento; nel frattempo l’esistenza dell’oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all'oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi. Una volta portato a termine il lavoro del lutto, l’Io ridiventa in effetti libero e disinibito. È necessario un certo lasso di tempo affinché l’imperativo dell’esame di realtà possa imporsi in tutto e per tutto; e che, quando quest’opera è terminata, l’Io può ridisporre della libido liberatasi dall'oggetto perduto.”

Brendekilde "Uslit" (1889)

Perchè la morte dell'Altro è così angosciante? Scrive Carotenuto (1991). "La morte dell’Altro significa l’immediata identificazione con un destino che è anche il nostro. Il vero tradimento della morte consiste nel fatto che essa, dal punto di vista dell’inconscio, appare del tutto inconcepibile e pertanto inesistente. L’inconscio non conosce il "no" e dunque non ha modo di negare l’indifferente fluire della vita. Nessun uomo, soprattutto se in possesso d’una coscienza scarsamente differenziata, convive con l’idea della morte ma anzi è inconsciamente convinto d’aver siglato un patto di immortalità, senza il quale non avrebbe senso parlare di tradimento.
Attraverso i rapporti con i nostri simili riusciamo a "contenere" la nostra condizione disagiata; quando, per qualsiasi ragione, essi vengono interrotti, si arriva al confronto finale."

Anche Kernberg (2013) ha approfondito il tema del lutto, riprendendo le teorie di Freud e di Melanie Klein, soffermandosi sulla perdita del/della compagno/compagna di vita. Egli ha intervistato numerose persone che avevano avuto un’esperienza di lutto significativa. Ha notato come “parlare dell’oggetto d’amore perduto evoca presenza persona amata che continua a vivere nelle menti. Questa esperienza sembra essere la riproduzione di una relazione interna col defunto, con nostalgia, con doloroso senso di mancanza di vita vissuta insieme e rimorso per non aver utilizzato il tempo insieme in maniera più intensa. Esso riflette sentimenti di colpa che sono più intensi quanto più soddisfacente e amorevole è stata la relazione”; in una relazione ambivalente, invece, vi è una tendenza minore a sperimentare questi vissuti.
Egli scrive che "nel processo del lutto si combinano:
1. La persistenza di una relazione oggettuale interiorizzata;
2. L’Identificazione con l’oggetto perduto e conseguente modificazione della rappresentazione di sé sotto l’influenza della rappresentazione dell’altro, cioè l’assumere atteggiamenti simili alla persona defunta."
“Il lutto”, continua, “a differenza di quando sostenne Freud, non è un processo limitato nel tempo. Per Freud (1929) il lutto si completa con l’identificazione inconscia con l’oggetto. Per la Klein (1940) il lavoro del lutto è completato dalla risoluzione ed elaborazione dei processi della posizione depressiva. Nell’identificazione è coinvolta la relazione permanente tra la rappresentazione di sé e la rappresentazione dell’oggetto, la combinazione della presenza intrapsichica dell’oggetto e la consapevolezza della sua oggettiva assenza permanente. Assenza oggettiva in presenza di intensa esperienza soggettiva della relazione è al centro del doloroso senso di perdita e dei processi compensatori.”
Il dolore per il rimorso e il senso di colpa genera un impulso riparativo e promuove lo sviluppo di un nuovo sistema di valori, le strutture dell’ideale dell’Io. Il rimpianto per le opportunità perse, il rimpianto per la perdita della relazione reale e la comprensione del valore della relazione sono la forza trainante di questo sviluppo, di questa trasformazione.
Desideri, aspirazioni e ambizioni del defunto, vita e futuro delle persone importanti, possono essere percepiti da chi è in lutto come un mandato, un obbligo morale a realizzare i suoi desideri. Diventano parte del Super-io come relazione personalizzata con l’oggetto. Forniscono uno scopo alla riparazione.
Quindi, i compiti del lutto sono il distacco dall'oggetto perduto e il mantenimento della continuità con tale oggetto. L’oggetto diviene, così, una presenza assente.
"Gli impulsi riparativi stimolano la crescita psicologica, la capacità di apprendere dall'esperienza e la capacità di arricchire le relazioni d’amore. La capacità di amare di nuovo aumenta con l’elaborazione e può essere arricchita da un processo che combina gratitudine per la nuova relazione con la gratitudine per la possibilità di coronare il mandato; è necessaria la convinzione che i defunti avrebbero voluto che trovassimo una nuova felicità".
Ciò che è importante nel normale processo di lutto è la capacità di piangere l’oggetto perduto ed essere in grado di amare ancora senza rinunciare all'amore per l’oggetto perduto e senza interrompere il lutto.


Bibliografia:
Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, 1999;
Borgna E., La solitudine dell’anima, Feltrinelli, 2011;
Brown N.O., La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Adelphi, 1964;
Carotenuto A., Amare tradire, Bompiani, 1991;
Freud S., Al di là del principio di piacere, in Opere, Vol. IX, 1920;
Freud S., Lutto e melanconia, in Opere, Vol. VIII, 1917;
Galimberti U., Dizionario di psicologia, UTET, 1992;
Kernberg O., Amore e aggressività, Giovanni Fioriti Editore, 2013;
Kubler-Ross E., Sulla morte e il morire, Cittadella, 1976.